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GIURISPRUDENZA – Atti persecutori e rapporti di vicinato.

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GIURISPRUDENZA

Atti persecutori e rapporti di vicinato.

La Corte di Cassazione, Sezione V Penale, con la sentenza 9 maggio 2018, n. 20473, ha deliberato sulla possibile correlazione tra condotte di tipo persecutorio (il c.d. stalking), ed eventuali azioni di disturbo poste in essere nell’ambito dei rapporti di vicinato.

Nello specifico la Suprema Corte ha posto la propria attenzione sulle c.d. “condotte disturbanti” tipiche dei rapporti di vicinato, che tuttavia generalmente rientrano nell’ambito degli atti emulativi e dell’illecito civile, ravvisando che tali condotte, in alcuni casi, possono sconfinare addirittura in ambito di reato, configurandosi l’ipotesi di cui all’art. 612, Cod. pen., ovvero del delitto di atti persecutori, che punisce: «Chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita».

Nel caso in esame si discuteva riguardo alla condotta di un imputato che aveva posto in essere condotte moleste e reiterate nei confronti dei vicini di casa, creando disturbo «collegando al telefono della sua abitazione una campana elettrica, installata all’esterno, attivando quotidianamente, ogni mattina un impianto di allarme, tenendo il motore del camion acceso anche per ore sotto le finestre dei vicini, custodendo degli asini con adiacente letamaio a pochi metri dall’abitazione degli stessi, lanciando nel loro giardino sassi e mozziconi di sigaro, e posizionando una latrina mobile sul confine».

In sede di Appello l’imputato era stato assolto, ma il P.M. aveva impugnato il procedimento innanzi ai giudici di legittimità. La Suprema Corte ha invece posto l’attenzione sulla c.d. finalità persecutoria della condotta posta in essere dall’imputato, disconosciuta dal giudice di merito, per il quale egli non stava facendo altro che esercitare il proprio diritto di proprietà. Al contrario per i giudici della Corte di cassazione siffatta interpretazione non è altro che frutto di una «erronea sovrapposizione concettuale tra la nozione di dolo e quella di mero movente dell’azione» ovvero «la causa psichica della condotta umana, lo stimolo che ha indotto l’autore ad agire, facendo scattare la volontà». Bisogna infatti distinguere il movente dell’azione, ovvero ciò che ha indotto un soggetto ad agire, dal dolo dell’azione, che è elemento costitutivo del reato, e che attiene anche a questione più complesse, come l’aver voluto e l’essersi anche prefigurato le conseguenze della propria azione.

Pertanto la Suprema Corte ha annullato la sentenza di assoluzione, rinviando il procedimento di nuovo alla Corte di appello.